05.25.2018

EPPUR SI MUOVE. GALILEO GALILEI ED IL MOBILE IMMOBILISMO DELLA GIUSTIZIA CIVILE.

“Eppur si muove” è la frase che una storiografia un po’ romanzata attribuisce allo scienziato Galileo Galilei all’atto di uscire dal Tribunale dell’Inquisizione, dopo avere appena abiurato – per portare a casa la pelle – la sua teoria secondo cui è la terra a ruotare intorno al sole.

“Eppur si muove” è la frase che mi piacerebbe pronunziare all’uscita dal Tribunale, ma che non posso proferire, e … non per paura dell’Inquisizione.

Infatti, da più di due mesi non si muove quasi più foglia; non vengono emesse con la precedente “velocità di crociera” le sentenze ed i provvedimenti decisori che le parti o, meglio, coloro che, con singolare senso dell’umorismo, vengono (ancora?) chiamati “utenti della giustizia” e gli avvocati continuano invano ad aspettare. Soltanto ai rinvii d’ufficio (cioè in quelli in cui non si fa niente) ed alle cancellazioni delle cause (in sostanza le liti abbandonate da mandare in archivio) viene impressa una accelerazione quasi pari a quella della luce, della quale – tanto per rimanere in tema – primo fautore fu proprio Galileo Galilei.

Il cittadino non aduso agli affari giudiziari pensa (ingenuamente?) all’eccessivo numero di cause frutto della innata litigiosità italica (anche perché è il refrain ripetuto da sempre per giustificare gli ingiustificabili ritardi della giustizia civile). Si saranno ancora incrementate le cause con ulteriore dilatazione dei tempi necessari per l’adozione delle decisioni?

No, è l’esatto contrario. Il contenzioso è in diminuzione, ragione per la quale i provvedimenti dovrebbero essere emessi in tempi più rapidi.

Invece alla diminuzione delle cause, stranamente, non corrisponde quella del tempo della loro definizione, bensì il loro ennesimo prolungamento.

La prima è una teoria semplice, nella sua disarmante logicità, che potremmo definire galileana, per cui è (anzi, dovrebbe essere) la giustizia a ruotare intorno al cittadino, e non viceversa.

Teoria, quindi, da abiurare per quella, più complessa ed articolata, della “proporzionalità inversa”, secondo cui la diminuzione del contenzioso è inversamente proporzionale al tempo occorrente per deciderlo.

Le ragioni che muovono la stessa restano, però, oscure (ho un’idea; siccome è contraria alla buona fede – principio che informa tutti i comportamenti giuridici – la tengo per me, non potendo da avvocato violarlo; almeno apertis verbis).

Ci sono state le elezioni? Aspettiamo la formazione del governo? Andavamo troppo veloce?

La giustizia, al pari della sanità, è (o meglio dovrebbe essere) un servizio essenziale. Pertanto meriterebbe maggior rispetto; anche perché coinvolge gli interessi vitali delle persone; invece, si limita, nella maggior parte dei casi, ad augurare loro … una lunga vita (non per niente il primato della causa più lunga del modo è italiana: cominciata nel 1816 e finita nel … 2008).

Ho invece, l’impressione, che la superficialità dilagante nella giustizia civile italiana – con impatto devastante sul PIL nazionale e sugli agognati investimenti esteri (ma di chi?) – è frutto di un tipico mal costume: il tirare a campare.

Quando, oltre 30 anni fa, misi per la prima volta piede in un Tribunale, mi scontrai subito con la dura realtà. L’Avvocato presso il quale svolgevo la pratica forense (un Maestro vero), al mio stupore da neofita, mi disse: “La giustizia italiana è una disorganizzazione organizzata.”.

Oggi, che all’inziale entusiasmo è subentrato l’amara disillusione, resto ancora più colpito dalla sua lungimiranza. La giustizia italiana in una frase di sette parole. Mai ho assistito ad una sintesi più cinica e tagliente.

Si continua ad utilizzare l’argomento dell’arretrato dei giudizi per far sì che quelli nuovi … diventino vecchi; non per tentare di smaltire gli uni e gli altri al fine di ridurne il numero e la pendenza. E’ una ruota che gira e rigira, giudizi vecchi che diventano monumenti nazionali; giudizi nuovi che invecchiano precocemente. La vita se ne va, e … il cielo è sempre più blu.

Ho l’impressione che si voglia involontariamente risolvere il problema della giustizia in modo radicale.

Nessuno farà più causa, non perché i pannicelli caldi delle mediazioni e delle conciliazioni assistite (altri lacciuoli e costi preventivi) abbiano ridotto l’accesso al contenzioso, ma perché gli elevatissimi costi (i c.d. contributi unificati dovuti allo Stato) e l’impossibilità di vedere definito il giudizio in tempi decenti scoraggeranno chiunque ad accedervi.

Insomma: il problema della giustizia si risolverà semplicemente con … l’ingiustizia. Ecco il classico colpo di genio italico che tutto il mondo ci invidia.

Già nel 1955 il grande Leo Longanesi scriveva:
In tribunale. Quel che qui mi colpisce, soprattutto, è la sciatteria, la noia, la noncuranza in cui tutto si svolge.
Da un momento all’altro, potrebbe affacciarsi qualcuno e dire: “La pasta è già in tavola” e nessuno troverebbe da ridire. Nemmeno l’imputato con le manette. E tutto ciò in aule decorate da grandi affreschi e da statue colossali.
La solita miseria italiana, sempre aulica e familiare, con qualcosa ch’è difficile definire, ma in cui si trova bontà, svogliatezza, scetticismo e remissione.
In tutti la certezza che “non ci sappiamo fare”, salvo poi a diventare patrioti per questioni da nulla, culinarie, soprattutto.

Non resta che augurarci, almeno, un’ingiustizia ordinata.

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